Pestilenza del 1656-1657 a Roma

 
Roma peste Seicento

Tra il 1656 e il 1657 Roma fu colpita da una pestilenza che durò diversi mesi e portò alla morte di oltre 14mila persone nella città. A Roma l'epidemia arrivò da Napoli, che fu il centro maggiormente colpito dalla pestilenza, dove sembra fosse arrivata dalla Sardegna: la città partenopea nei decenni precedenti era stata già colpita da un'eruzione del Vesuvio e la città era alle prese con una densità abitativa estremamente alta e carenze idriche, fatti che contribuirono a portare alla rivolta di Masaniello del 1647. Queste circostanze di sovrappopolazione e difficoltà igienico-sanitarie contribuirono quindi nel 1656 a una rapida diffusione della pestilenza.
Proprio nel 1656, un marinaio giunto da Napoli prese alloggio in una locanda a Roma, in Via di Monte Fiore, nel Rione Trastevere, dove si ammalò. Portato all'Ospedale San Giovanni, l'uomo morì dopo alcuni giorni, con il medico che escluse potesse trattarsi di peste, nonostante tra gli assistenti avessero notato segnali compatibili: i fatti successivi, tuttavia, dettero ragione a questi ultimi. Nei giorni successivi, infatti, la famiglia che gestiva la locanda trasteverina in cui aveva alloggiato il marinaio furono colpiti anche loro dal morbo, morendo: il ritardo e l'iniziale esitazione fecero sì che non si prestarono le misure di isolamento della locanda, favorendo quindi la diffusione della pestilenza nel Rione Trastevere. In tempi più rapidi possibili il rione, ben definito territorialmente dalle mura e dal Tevere, venne isolato, issando palizzate in legno sorvegliate da guardie armate, nella speranza di riuscire a contenere il contagio, ma ormai era tardi e presto arrivarono notizie secondo cui il morbo era arrivato ormai anche sull'altra sponda del fiume. Il timore fu grande, dal momento che la situazione a Napoli in quel periodo era drammatica, con le vittime che toccavano le duemila persone al giorno nella città partenopea.
Di fronte a una situazione che rischiava di sfuggire di mano, Papa Alessandro VII Chigi (1655-1657) fece una serie di nomine mirate per gestire l'epidemia. Mario Chigi, fratello del Pontefice, fu nominato Commissario della Sanità (aveva gestito la pestilenza a Siena in precedenza), venne creata poi la Congregazione della Santa Consulta, guidata dal Cardinale Giulio Sacchetti, poi affiancato da Cesare Rasponi. Fu poi nel 1657 che arrivò la nomina più importante, quella del Cardinale Girolamo Gastaldi come Commissario straordinario per la Sanità, che ebbe un ruolo determinante nel gestire la situazione. Roma godeva del fatto che l'elevato numero di istituzioni caritatevoli offrivano un sistema sanitario molto più strutturato rispetto ad altre città dell'epoca, oltre che in molti casi aperto a tutti. In questo contesto, Gastaldi prese delle misure draconiane per evitare il contagio, misure che lui stesso ha raccontato nel testo Tractatus de avertenda et profliganda peste politico-legalis. L'idea del Cardinale era quella di fermare il contagio e stabilire il controllo della situazione attraverso appunto la rete di ospedali e istituzioni di carità presenti a Roma: in questo contesto, vengono istituite importanti misure di contenimento, proibendo assembramenti ed eventi pubblici e addirittura il suono delle campane per timore che queste avrebbero portato i cittadini a radunarsi, con i rischi di contagio conseguenti. Vengono chiusi tribunali e collegi, sospese processioni e servizi di confraternite.
Venne inoltre istituito un lazzaretto presso l'Isola Tiberina, non solo perché si trattava di una sede ospedaliera, ma perché essendo una piccola isola poteva facilmente essere isolate: i due ponti, infatti, vennero chiusi al pubblico transito e l'isola fu recintata con palizzate in legno. 
Oltre al lazzaretto dell'Isola Tiberina, in cui venivano curati gli appestati, ne vennero realizzati altri quattro: due fuori Porta San Pancrazio, uno presso l'omonima Chiesa e un altro presso il Casale di San Pio V, entrambi posti in posizioni elevate e pensati per tenervi i convalescenti. Il quarto invece fu realizzato presso l'edificio delle Carceri Nuove in Via Giulia, la cui costruzione era terminata appena prima la pestilenza, nel 1655. Un quinto lazzaretto venne invece creato presso il monastero di Sant'Eusebio all'Esquilino. Per un periodo era inoltre stata presa in considerazione la possibilità di trasformare in lazzaretto anche il Monastero delle Carmelitane Scalze di Regina Coeli alla Lungara.
Grande attenzione venne data invece a forme di sterilizzazione, ben diverse ovviamente da quelle che abbiamo conosciuto in tempi recenti durante la pandemia di Covid-19: le monete, da sempre ritenute potenziale veicolo di contagio, venivano immerse nell'aceto, soprattutto quelle che arrivavano da fuori città, che subivano forme simili di disinfettazione alle porte di Roma, insieme alle lettere in arrivo e altri bene provenienti da fuori. Due vigne alle porte di Roma, la Sannesio e la Colonna, furono adibite a forme di sanificazione simili, nonché per bruciare oggetti potenzialmente contaminati. Sempre per limitare gli spostamenti, quasi tutte le porte delle mura di Roma erano state chiuse già il 20 Maggio 1656.
Nella primavera del 1657, la situazione sembrava andare via via migliorando, con il numero di decessi sempre più in calo, tanto che il 7 Aprile 1657, anniversario dell'elezione di Papa Alessandro VII, si riteneva che il contagio fosse terminato tanto che fu celebrato un Te Deum per festeggiare: l'estate, tuttavia, portò a un aumento dei contagi. Fu solo l'8 Settembre successivo che venne decretata la chiusura dell'epidemia a Roma, con Papa Alessandro VII che dichiarò ufficialmente la fine del contagio visitando Santa Maria del Popolo. 
In oltre un anno di pestilenza, a Roma rimasero uccise 14.473, di cui 11.373 nei rioni sulla riva sinistra del Tevere, 1.600 nel Ghetto, 1.500 a Trastevere, su una popolazione di 100mila abitanti. 
 
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