Roma nella Divina Commedia

Dante e il suo poema, Domenico Michelino, Santa Maria del Fiore, Firenze
La Divina Commedia di Dante Alighieri è senza ombra di dubbio una delle maggiori opere della letteratura italiana. Il poema, diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso) di 33 canti ciascuna (34 nel caso dell'Inferno, essendo il primo una sorta di proemio), è basato sul viaggio immaginario del Sommo Poeta attraverso l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, in cui incontra un gran numero di personaggi del passato con cui interloquisce.

Il racconto di tale viaggio rappresenta dunque un poema allegorico-didascalico che permette a Dante di parlare della sua visione del mondo e della politica del suo tempo (con non poche invettive: non dimentichiamo che Dante venne esiliato dal governo di Firenze).

In questo contesto, aspramente critico verso un'Italia divisa e che non riesce a individuare una propria guida, Roma, capitale del Papato ma privata del Papa per la cattività avignonese (per quanto l'opera sia ambientata nel 1300, quando il Papa era a Roma, viene scritta decenni dopo, durante la cattività avignonese), nonché città italiana più ricca di storia e più rappresentativa, viene citata un notevole numero di volte.

Andiamo allora a vedere quali sono le occasioni in cui Dante parla di Roma e perché.

Inferno

Canto II:

non pare indegno ad omo d’intelletto; 
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero 
ne l’empireo ciel per padre eletto:

In questi versi Dante parla di come solo pochi eletti abbiano potuto viaggiare da vivi nel mondo dei morti, e tra di loro cita Enea e San Paolo. Proprio Enea è citato come il padre "de l'alma Roma", la città che, scrive, sarà poi sede del Seggio di San Pietro. Proprio nel suo viaggio nell'Ade e nei Campi Elisi, Enea riceve la profezia che i suoi discendenti contribuiranno a fondare una città che contribuirà a permettere a molti popoli di avere gloria nelle arti e nelle scienze, popolo che Roma governerà.

Canto XIV:

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, 
che tien volte le spalle inver’ Dammiata 
e Roma guarda come suo sveglio.

In quest'altra citazione di Roma, Dante parla in realtà dell'isola di Creta, dove su un monte - il monte Ida - è presente la statua di un vecchio da cui escono lacrime che, scavando nella roccia, scendono verso gli inferi creando così i fiumi infernali. Il racconto del vecchio ricalca il sogno di Nabucodonosor, di cui si parla nell'Antico Testamento in Daniele 31-33.

Roma potrebbe apparentemente essere citata casualmente, ma è interessante come sia citata in coppia con Damietta, città egiziana sulla foce del Nilo, nel parlare di un isola greca: sembra quasi che Dante stia creando una sorta di itinerario tra alcuni dei luoghi principali delle antiche civiltà, ma è anche un luogo chiave della mitologia classica, visto che il Monte Ida era ritenuto sacro a Rea, madre dei primi dei della religione greca classica tra cui Zeus.

Canto XVIII

come i Roman per l’essercito molto, 
l’anno del giubileo, su per lo ponte 
hanno a passar la gente modo colto, 

che da l’un lato tutti hanno la fronte 
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; 
da l’altra sponda vanno verso ’l monte. 

Nel descrivere il modo in cui i peccatori transitavano, Dante fa un paragone con l'incredibile afflusso di persone che si recarono a Roma per il Giubileo del 1300, costringendo a creare due sensi di marcia per i pedoni su Ponte Sant'Angelo, ponte storicamente strategico per i pellegrinaggi verso la Basilica di San Pietro. Viene inoltre citato Castel Sant'Angelo, trovandosi proprio accanto al ponte, mentre il "monte" citato è Monte Giordano, che si trova sulla sponda opposta del ponte.

Canto XXV

Lo mio maestro disse: "Questi è Caco, 
che, sotto ’l sasso di monte Aventino, 
di sangue fece spesse volte laco. 

Nel girone in cui Dante incontra i ladri incontra anche il gigante Caco, che secondo la mitologia commise numerose rapine e che terrorizzava chi passava dall'Aventino, finché non venne sconfitto da Ercole. Nel citare la sua storia, è quindi citato anche il colle Aventino.

Canto XXVII

Lo principe d’i novi Farisei, 
avendo guerra presso a Laterano, 
e non con Saracin né con Giudei, 

ché ciascun suo nimico era cristiano, 
e nessun era stato a vincer Acri 
né mercatante in terra di Soldano; 

In questo canto Dante incontra Guido da Montefeltro che lancia un'invettiva che non lascia immune Papa Bonifacio VIII, verso il quale Dante non nasconde mai le antipatie in tutta l'opera. Definito come principe dei nuovi Farisei, Bonifacio VIII viene criticato perché non ha come nemici le altre religioni (all'epoca la guerra di religione era un fatto normale), ricordando anche la sconfitta dei crociati a San Giovanni d'Acri, ma si trovava in una guerra interna al Laterano (all'epoca sede del Papa), da intendersi come contro altri Cristiani.


Purgatorio

Canto VI:

Vieni a veder la tua Roma che piange 
vedova e sola, e dì e notte chiama: 
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».

I canti sesti delle tre cantiche rappresentano i tre canti politici per eccellenza della Divina Commedia. In questo, nello specifico, Dante lancia la celebre invettiva che inizia con "Ahi serva Italia, di dolore ostello", in cui parla della condizione dell'Italia.

Questa frase dedicata a Roma (cui abbiamo dedicato un approfondimento a sé stante), si basa sul fatto che Roma, città più rappresentativa dell'Italia, capitale dell'Impero Romano, si trovava senza un'autorità. Per quanto ambientata nel 1300, la Divina Commedia fu scritta diversi anni dopo, quando il Papa era stato trasferito provvisoriamente ad Avignone, mentre l'Imperatore del Sacro Romano Impero era preso dalle lotte politiche in Germania e trascurava l'Italia. Questo porta Dante a definire Roma "Vedova e sola", e a farle chiedere "Cesare mio, perché non m'accompagne?".

Canto XVI:

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, 
due soli aver, che l’una e l’altra strada 
facean vedere, e del mondo e di Deo.

A parlare nel XVI Canto è Marco Lombardo, cortigiano del XIII Secolo incontrato da Dante e Virgilio e con cui parlano del tema del libero arbitrio. In questo discorso parla di come una volta Roma aveva "due soli" (questo era il nome della teoria dell'epoca per cui Papa e Imperatore dovevano essere le due massime autorità ma distinte tra di loro), il Papa e l'Imperatore, proprio quella Roma che ha costruito il mondo virtuoso. In quel momento, tuttavia, l'autorità, per le ragioni già viste - cattività Avignonese da un lato, Imperatori impegnati nelle faccende tedesche dall'altro - non veniva attuata. "Rugumar può, ma non ha l'unghie fesse", scrive Dante riguardo la situazione del Papa, che in quel momento non era in condizione di poter mettere in atto tale potere sull'Italia per le ragioni già elencate.

Canto XXIX:

Non che Roma di carro così bello 
rallegrasse Affricano, o vero Augusto, 
ma quel del Sol saria pover con ello;

Nel Paradiso Terrestre, dante incontra un sontuoso carro sostenuto da un grifone, che rappresenta l'ascesa della Chiesa nella storia umana. Per sottolinearne la bellezza, Dante lo paragona a quelli dei grandi condottieri Romani - Scipione l'Africano, Augusto - e al carro del Sole.

Canto XXXII:

Qui sarai tu poco tempo silvano; 
e sarai meco sanza fine cive 
di quella Roma onde Cristo è romano.

A parlare in questa occasione è Beatrice, che annuncia a Dante che dopo la morte potrà raggiungerla in Paradiso. Per parlare del Paradiso, lo definisce "Quella Roma onde Cristo è Romano": un concetto molto simile a quello della "Gerusalemme Celeste".

Paradiso

Canto VI:

Poscia che Costantin l’aquila volse 
contr’al corso del ciel, ch’ella segio 
dietro a l’antico che Lavina tolse, 

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio 
ne lo stremo d’Europa si ritenne, 
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; 

e sotto l’ombra de le sacre penne 
 governò ‘l mondo lì di mano in mano, 
 e, sì cangiando, in su la mia pervenne. 

Cesare fui e son Iustiniano, 
che, per voler del primo amor ch’i’ sento, 
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento, 
una natura in Cristo esser, non più, 
 credea, e di tal fede era contento; 

ma ‘l benedetto Agapito, che due 
sommo pastore, a la fede sincera 
mi dirizzò con le parole sue. 

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, 
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi o
gni contradizione e falsa e vera. 

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, 
a Dio per grazia piacque di spirarmi 
 l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; 

e al mio Belisar commendai l’armi, 
cui la destra del ciel fu sì congiunta, 
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. 

Or qui a la question prima s’appunta 
la mia risposta; ma sua condizione 
mi stringe a seguitare alcuna giunta, 

perché tu veggi con quanta ragione 
si move contr’al sacrosanto segno 
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone. 

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno 
 di reverenza; e cominciò da l’ora 
 che Pallante morì per darli regno. 

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora 
per trecento anni e oltre, infino al fine 
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. 

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine 
al dolor di Lucrezia in sette regi, 
vincendo intorno le genti vicine. 

Sai quel ch’el fé portato da li egregi 
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 
incontro a li altri principi e collegi; 

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro 
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi 
ebber la fama che volontier mirro. 

Esso atterrò l’orgoglio de li Arabi 
che di retro ad Annibale passato 
 l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. 

Sott’esso giovanetti triunfaro 
Scipione e Pompeo; e a quel colle 
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. 

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle 
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il colle. 

E quel che fé da Varo infino a Reno, 
Isara vide ed Era e vide Senna 
 e ogne valle onde Rodano è pieno. 

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna 
e saltò Rubicon, fu di tal volo, 
 che nol seguiteria lingua né penna. 

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, 
 poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse 
 sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. 

Antandro e Simeonta, onde si mosse, 
rivide e là dov’Ettore si cuba; 
 e mal per Tolomeo poscia si scosse. 

Da indi scese folgorando a Iuba; 
 onde si volse nel vostro occidente, 
 ove sentia la pompeana tuba. 

Di quel che fé col baiulo seguente, 
 Bruto con Cassio ne l’inferno latra, 
 e Modena e Perugia fu dolente. 

 Piangene ancor la trista Cleopatra, 
 che, fuggendoli innanzi, dal colubro 
 la morte prese subitana e atra.  

Con costui corse infino al lito rubro; 
 con costui puose il mondo in tanta pace, 
 che fu serrato a Giano il suo delubro. 

 Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face 
 fatto avea prima e poi era fatturo 
 per lo regno mortal ch’a lui soggiace, 

 diventa in apparenza poco e scuro, 
 se in mano al terzo Cesare si mira 
 con occhio chiaro e con affetto puro; 

 ché la viva giustizia che mi spira, 
 li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, 
 gloria di far vendetta a la sua ira. 

 Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: 
 poscia con Tito a far vendetta corse 
 de la vendetta del peccato antico. 

 quando il dente longobardo morse 
 la Santa Chiesa, sotto le sue ali 
 Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Riportiamo una lunga parte del VI Canto del Purgatorio, anch'esso politico, in cui l'Imperatore Bizantino Giustiniano parla a lungo della storia di Roma per poi collegarsi alle vicende delle lotte tra Guelfi e Ghibellini che colpivano l'Italia dell'epoca di Dante. Il testo è comprensibile e didascalico, e dopo aver parlato delle imprese di Giustiniano - il Corpus Iuris Civilis, l'abbandono dell'eresia monofisita grazie al Papa Agapito, la spedizione a Occidente di Belisario, egli ripassa in rassegna la storia di Roma e dell'Impero, dalla vittoria di Roma su Alba Longa fino alla vittoria di Carlo Magno sui Longobardi.

Canto IX:

Ma Vaticano e l’altre parti elette 
di Roma che son state cimitero 
a la milizia che Pietro seguette, 

tosto libere fien de l’avoltero». 

In questo canto Dante lancia un'invettiva contro parte della Chiesa che, a suo parere, ha dimenticato Nazareth, dove l'Arcangelo Garbiele si recò da Maria per l'Annunciazione, dando peso a suo avviso eccessivo alle ricchezze terrene. Tuttavia, ritiene che tale profanazione a breve verrà meno a Roma e nei luoghi dove i primi martiri seguirono l'esempio di San Pietro, quindi a Roma e al Vaticano, dove San Pietro venne sepolto dopo il martirio, avvenuto nel vicino Gianicolo.

Canto XXVII:

Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’io concipio;

Nel XXVII canto del Paradiso Dante incontra San Pietro, primo Papa (e come tale primo Vescovo di Roma) nonché Patrono di Roma insieme a San Paolo. San Pietro cita ovviamente Roma, e lo fa nell'opera di Dante dopo una critica alla cattività avignonese, annunciando l'arrivo della Provvidenza Divina, la stessa che difese Roma al tempo di Scipione.

Canto XXXI:

Se i barbari, venendo da tal plaga 
che ciascun giorno d’Elice si cuopra, 
rotante col suo figlio ond’ella è vaga, 

veggendo Roma e l’ardua sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;

Nell'Empireo Dante incontra i Beati dell'Antico e del Nuovo Testamento. Qui paragona il suo stupore nel raggiungere il Paradiso a quello dei barbari che dalle terre del Settentrione raggiungevano Roma e ammiravano i monumenti e il Laterano, che Dante ritiene la più alta opera al mondo.

Qual è colui che forse di Croazia 
viene a veder la Veronica nostra, 
che per l’antica fame non sen sazia, 

ma dice nel pensier, fin che si mostra: 
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, 
or fu sì fatta la sembianza vostra?’;

tal era io mirando la vivace 
carità di colui che ‘n questo mondo, 
contemplando, gustò di quella pace.

Sempre nel XXXI Canto, Dante incontra San Bernardo da Chiaravalle, e nell'ammirare la carità del Santo si paragona a un pellegrino che venuto - pone - dalla Croazia, arriva nella Basilica di San Pietro e ammira il Velo della Veronica.

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